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LA CRISI A SINISTRA

  • Immagine del redattore: Gilberto
    Gilberto
  • 24 set
  • Tempo di lettura: 4 min

Non basta riprodurre lo sguardo di Berlinguer sulla tessera di partito per ridare senso alla sinistra.


La crisi che attraversa in buona parte dell'occidente che si dice democratico la sinistra politica è figlia della catastrofe economica e politica che nel 1989 definì la scomparsa dell'Unione Sovietica e del Patto di Varsavia che legava Mosca ai Paesi satelliti d'oltre cortina.

Ma non solo di quella catastrofe.

Dopo il crollo del Muro la sinistra politica occidentale sostituì all'Internazionale Socialista la Globalizzazione finanziaria, anche grazie alla fusione e all'integrazione con la parte progressista della politica cattolica.

Furono gli anni in cui al dirigismo originale del PCI si sostituì il “ma-anchismo” veltroniano, in cui i DS di allora aprivano attaverso le formule del “politicamente corretto” e del “ma anche” le porte della propria organizzazione all'integrazione con le anime dismesse della DC.

Lo sviluppo di quel modello che tentava di aggregare consistenti interessi economici alla fusione di obiettivi popolari di massa (lavoratori ex PCI e fedeli ex DC) mise insieme non poche costellazioni finanziarie, al punto che uno dei grandi esponenti del PD piemontese, altissimo dirigente della Lega delle Cooperative, divenne vice presidente di un primario istituto di credito mentre l'ex sindaco di Torino esultava, su altri fronti, affermando “abbiamo una banca”.

La disgregazione politica del tempo, l'inizio di una slavina trasformatasi in valanga odierna, consentì sul fronte opposto, nel centro destra, lo sviluppo di un fronte di contrapposizione economica, organizzativa e politica che confluì nella Compagnia delle Opere del tempo di Formigoni.

Il confronto politico, quindi, si mutò prevalentemente in confronto economico, malamente mascherato da slogan che tentavano di attribuire una forma di idealità ad un pensiero estremamente materiale.

Il disastro si manifestò, però, quando i Liberal dominanti, da Clinton a Obama negli USA per arrivare a Blair in UK fino ai nostri Prodi e Renzi, approvarono un modello di globalizzazione economica che imponeva, per competitività, la delocalizzazione industriale, svuotando l'occidente della sua caratteristica platea di lavoratori salariati, ovvero del bacino elettorale originario dei Liberal stessi.

Dopo di che lo scontro politico un tempo definibile in termini di idealismo si trasferì sempre più sul piano della gestione economica e finanziaria invertendo in qualche misura i termini di appartenenza delle categorie sociali allo schieramento politico: alla domanda di economia pratica (artigiani, PMI, commercianti, professionisti e agricoltori) supportata dal centro destra si contrapponeva una proposta di economia finanziaria (banche, assicurazioni, immobiliaristi, industriali) caldeggiata dal centro sinistra generando l'imbarazzante conflitto in cui gli operai lombardi e veneti votavano in contrapposizione rispetto ai cosiddetti “radical chic” residenti nelle costosissime ZTL urbane.

Quando esplose l'ultima grande crisi finanziaria, la bolla dei mutui sub-prime che affondò le borse planetarie dal 2007 in poi, tanto la presidenza Bush jr, in carica all'epoca dell'esplosione della crisi, tanto quella di Obama puntarono al sovvenzionamento finanziario delle banche (in totale vennero profusi oltre 1200 miliardi di dollari, pagati con le tasse dei cittadini) evitando però di sostenere i titolari di mutui coinvolti nella crisi: milioni di persone titolari di mutui, generalmente appartenenti alla classe media e medio bassa, persero la casa e, con quella, praticamente tutti i loro risparmi.

In UE, naturalmente, non andò diversamente: gli istituti di credito chiesero ai loro clienti di rientrare immediatamente dalle rispettive esposizioni generando una dinamica di crisi di cui ancora oggi risentiamo le conseguenze.

Sostenute dalle Banche Centrali e copiosamente ricapitalizzate dalle stesse, le Banche avviarono processi di integrazione e assimilazione in modo da poter raggiungere la dimensione per cui “non è possibile fallire”, dimensioni che consentono ingenti profitti realizzati anche attraverso modelli di “creatività finanziaria”, accompagnati da atteggiamenti spesso dispotici nei confronti della clientela minore, non raramente orientata ad acquisire prodotti finanziari tossici per gli acquirenti ma ad altissima remunerazione per i venditori.

Così, mentre il sistema produttivo e distributivo rappresentato da PMI e commercianti implodeva, il modello finanziario generava una nuova, impressionante disparità nella redistribuzione del reddito aggravando e ampliando la frattura sociale e, conseguentemente, il confronto politico e istituzionale.

Globalizzazione e delocalizzazione ridussero rapidamente il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali, abbondantemente fiaccate dalle riforme del lavoro volute dal democratico Renzi, e le molteplici cristi industriali portate all'attenzione dei diversi governi ben raramente trovarono soluzioni operative, prevalentemente ricorrendo a soluzioni assistenziali di Cassa integrazione.

L'antico confronto politico di impronta idealista, quindi, si riposizionava sul confronto economico in cui la politica sostiene gruppi finanziari dagli interessi contrapposti, e basta osservare la scalata di MontePaschi a MedioBanca (scalata favorita e approvata dal governo di centro destra ed aspramente criticata dal centro sinistra) o i tentativi di acquisizione operati da Unicredit sulla tedesca Commerzbank (in cui la posizione politica è speculare e inversa) per comprendere il senso di questa affermazione.

Alla luce di questa chiave di lettura diviene più semplice leggere le dinamiche macropolitiche attuali, e si comprende bene il perché l'oggetto principale dell'argomento pubblico della politica siano alcuni diritti che con le politiche industriali o del lavoro nulla hanno a che fare, come il diritto all'aborto o il diritto alla sessualità transgender.

Esaurita la terminologia appropriata per fare fronte alle criticità che attanagliano le classi sociali inferiori (occupazione, lavoro, sicurezza, risparmio) l'idealizzazione di una società culturalmente illuminata, con scivoloni nostalgici sul tema peace&love, è divenuto il centro del dibattito, dibattito in cui, talvolta ma non sempre, emerge la chiamata alle armi al grido di “salario minimo”, salario mai realizzato dalla sinistra nei non pochi anni pregressi di potere e governo.

Nel frattempo deindustrializzazione e riduzione della produzione industriale scremano la classe lavoratrice mentre aspetti di robotica e intelligenza artificiale determinano aree di nuova disoccupazione o sottooccupazione a cui non sembra possa essere posto un freno o un limite.

La classe media annaspa in affanno, chi potrebbe andare in pensione rimane al lavoro, molta parte dei nuovi contratti di lavoro – anche a tempo indeterminato – sono part-time, oltre 150mila ragazzi, spesso neolaureati, lasciano il Paese in cerca di opportunità e cresce il numero di NEET, coloro che hanno rinunciato sia a cercare un'occupazione che a studiare.

Intanto si forma un nuovo, imponente sotto proletariato composto dai NEET e dai nuovi cittadini che hanno visto infrangersi qui i sogni e le aspirazioni di benessere a cui aspiravano lasciando la loro terra. Sono i cittadini delle periferie trascurate, quelli a cui non bastano più le parole e le promesse, quelli a cui sembra che l'unica risorsa possibile sia la violenza.

Lo scontro sociale è un magma pronto ad esplodere.

Forse anche a sinistra bisognerebbe tenerne conto.

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