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IL RITORNO DEGLI INDIANI METROPOLITANI

  • Immagine del redattore: Gilberto
    Gilberto
  • 14 gen
  • Tempo di lettura: 1 min

Sono un vecchio indiano metropolitano.

Appartengo a una tribù dissoltasi nel tempo, una tribù un po' folle ed esaltata con cui condivisi pensieri e canzoni, riti e cortei in quella che fu una turbolenta adolescenza collettiva, avviata in una piazza Fontana e terminata in una rossa Renault.

Eravamo tribù di raccoglitori e cacciatori, convinti che la nascente agricoltura, con la sua diversa organizzazione sociale, avrebbe distrutto la creatività umana, la fantasia, l'arte e la poesia: come darci torto oggi osservando il profluvio di banalità, di atonie, la bonaccia mentale che percorre le reti neurali che linkano il vecchio west.

Danzavamo al ritmo di parole che affermavano “una risata vi seppellirà”, “il personale è politico” poi le Giubbe Blu si precipitarono su di noi: frequenze televisive di inaudita violenza investirono le generazioni successive, inondarono menti e cervelli, al politico e al sociale sostituirono la mediocre aspirazione agricola e il sogno borghese della proprietà e del possesso esibito.

Ci disperdemmo, ognuno magari conservando memorie di vinile di quel tempo glorioso che fu la nostra giovinezza.

Oggi, guardando dalle fessure del tepee, forse si inizia a cogliere un vago rimbombare di tamburi provenire dalle Riserve metropolitane in cui le nuove tribù sono costrette, e ne si coglie il potenziale nel momento in cui i neri Colonnelli predicano il consenso alla rabbia purchè silenziosa e educata, come se la rabbia potesse manifestarsi usando bon-ton e etiquette.

Chissà se sia una rinascita, un ritorno, o non piuttosto l'ultimo singhiozzo, l'ultimo riflusso di una stagione dimenticata, seppellita dai selfie alimentari, dall'edonismo manifesto, dal narcisismo fatto virtù, dall'uniformismo incolore che divora la fantasia.

Non mi resta che sperare.


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