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FREEMARKETS & FREEFALL

  • Immagine del redattore: Gilberto
    Gilberto
  • 13 set
  • Tempo di lettura: 5 min

Nel 2010 l'economista Joseph Stiglitz, nella prefazione del suo volume “Bancarotta” edito in Italia da Einaudi, scriveva:

Per un quarto di secolo hanno imperato le dottrine di mercato. Lo Stato deve svolgere un ruolo minimo nell'economia e la regolamentazione non fa altro che impedire l'innovazione. Le banche centrali devono preoccuparsi solamente di tenere sotto controllo l'inflazione. Oggi persino Alan Greenspan (ex governatore della FED) ha ammesso che tale ragionamento era sbagliato.”

Ripeto la data: era il 2010 ed eravamo immediatamente a ridosso dello schianto Lehman Bros che costò al mondo intero centinaia di migliaia di posti di lavoro e centinaia di miliardi di dollari per salvare – spesso un po' a capocchia – istituti di credito privati.

La data è importante perché indica con chiarezza che dopo tre lustri nulla è cambiato: la dottrina imperante è sempre la medesima con lo Stato che deve svolgere un ruolo minimo, con le Banche centrali che si occupano essenzialmente di contrasto all'inflazione e con regolamentazioni – il caso dell'UE è emblematico – che impediscono l'innovazione.

Dal crack del 1929 alla crisi del 2008, passando per le infinite crisi finanziarie, calcolate in ben 124 tra il 1970 e il 2007 dallo stesso Stiglitz, già chief economist della Banca Mondiale, poco o nulla è cambiato nelle modalità di gestione dell'economia e delle conseguenti politiche economiche, fatto salvo il periodo in cui negli Stati Uniti si affermarono ipotesi keynesyane per risollevare il Paese dalla depressione, periodo interrotto dal sopraggiungere della Seconda Guerra mondiale e dalla relativa War Economy.

Continuiamo, in pratica, a ripetere ostinatamente e ottusamente gli stessi schemi che conducono le società occidentali da una crisi economica ad una finanziaria attribuendo di volta in volta la responsabilità al fato, alla congiuntura, a una bolla speculativa, a un baco informatico, a conflitti e tensioni, senza avere il coraggio di affermare che è il Modello strutturale, il Capitalismo del Libero Mercato, ad essere il responsabile dei vari sconquassi.


Libero Mercato o Redistribuzione?

La debolezza del Libero Mercato, e del Capitalismo stesso nella sua accezione più aperta, è scritta nel suo DNA come una malattia congenita e cronica, guariibile, a mio avviso, con una terapia profonda e incisiva composta da potenti iniezioni di Redistribuzione delle Risorse.

Una maggiore redistribuzione, infatti, consentirebbe un'ampliamento delle opportunità di consumo, un più facile accesso al credito, interessanti performances produttive e il mantenimento di formule di welfare sostenute dalla moderata tassazione diretta (da noi IRPEF) e soprattutto indiretta (IVA).

Osservo che gli Stati occidentali sono tutti, nessuno escluso, attanagliati da problemi rilevantissimi di Debito Pubblico a cui si somma, soprattutto negli USA, una massa di debito privato a dir poco stratosferico. Ricordo che il Debito pubblico è determinato dalla differenza tra quanto uno Stato spende e quanto incassa, il che significa che ampliando la redistribuzione si punta ad un maggiore incasso erariale (in particolar modo attraverso la tassazione indiretta) mentre una attenta riorganizzazione della burocrazia (spending review e utilizzo dell'IA) consente di ridurre i costi ottenendo così una riduzione del Debito Pubblico.

Invece manteniamo in essere l'idea (l'ideologia, il Mito) del Libero Mercato nella sua forma più estrema di Neoliberismo, facendo esattamente il contrario e trovandoci conseguentemente ad affrontare una doppia criticità: il Debito Pubblico eccessivo da una parte e lo Scontento popolare da immiserimento dall'altra.

In altri Grandi Blocchi – considerati ostili all'Occidente – si praticano forme di economia dirigista, orientate e controllate dallo Stato nella parte prevalente, il che non esclude la libertà di impresa e l'arricchimento individuale: a quanto pare il modello suggerisce performances economiche progressive e ben differenti da quelle occidentali e non sembra, ad un osservatore esterno, che le libertà individuali dei cittadini di quei blocchi, in particolare in Cina e Russia, abbiano molto da risentire rispetto agli standard occidentali: le spiagge di Cipro e di Sharm o delle Maldive ospitano notevoli quantità di turisti russi mentre il turismo cinese è tra i più appetibili per l'economia turistica europea.


Il bluff semantico

Insomma, sembrerebbe che l'Economia nella sua forma dirigista abbia buoni effetti tanto sui conti dello Stato quanto sulla vita quotidiana dei cittadini ma, come detto, quel modello è ritenuto “ostile” all'occidente.

Si dice che non essendovi in quei Paesi una democrazia compiuta anche quel tipo di economia vada esecrato e tenuto lontano.

Ma siamo sicuri che non si tratti di un bluff?

Siamo certi che il concetto di democrazia politica e di democrazia economica non siano semplicemente affermazioni che celano una struttura implicitamente gerarchica e verticista del modello economico, un modello che punta a rendere più ricco il ricco e più povero il povero? Un modello che favorisce l'accumulazione del profitto nelle strutture che detengono il denaro (banche, strutture finanziarie, speculatori di borsa) a scapito di chi del denaro ha bisogno, un sistema che favorisce l'Offerta di denaro rispetto alla Domanda ?

Notoriamente la democrazia economica proposta dagli USA è un concetto dollarocentrico, necessario e utile alla FED per mantenere elevata la domanda di T-bond e, con quella, la struttura organizzativa del Paese.

Aggredendo il dollaro, come tentano di fare i BRICS, si punta a demolire la struttura complessiva statunitense e, con quella, la forza muscolare americana.

Forse, allora, il concetto stesso di democrazia economica è una sorta di trompe l'oeil, un'illusione semantica che si traduce in un'altra forma illusoria, questa volta politica.

Se dal 2010 ad oggi, quindici anni dopo, nulla è cambiato nell'organizzazione economica e politica dell'Occidente pur sapendo perfettamente che il modello è strutturalmente destinato a precipitare in reiterate criticità, allora non resta che pensare che quel modello è l'unico noto alla potenza dominante (o ai potentati economici operanti nello schema) per conservare se stessa e il proprio potere, e che la denominazione democratica sia poco più che un espediente semantico, una semplice ricerca e affermazione del consenso per poter esercitare indisturbati il potere.


Il Cambiamento possibile

Scrivevo in un mio volumetto (Etica della Sobrietà e spirito del liberismo) come sia inutile e persino dannoso tentare di rispondere a nuove problematiche con l'arsenale di filosofie superate: né Nietzsche né Marx possono risultare utili a superare la crisi sistemica dell'economia politica occidentale; al più sia l'opera di Marx che quella di Max Weber consentono di comprendere meglio le dinamiche che inducono al manifestarsi delle criticità del neoliberismo.

Dobbiamo necessariamente cercare nuove risposte, formulare nuove proposte, individuare nuovi modelli ideologici che sviluppino format politici innovativi.

Certo, la tentazione a cui inducono le filosofie del decadentismo del tardo ottocento, sia derivate dall'idealismo che dal materialismo, sono ricche di fascinazione e difficilmente possiamo astrarci completamente dallo strascico di pensiero che hanno lasciato nel nostro impianto culturale, ma non sarenno né le rivendicazioni neonaziste della tedesca AFD né gli afflati populisti dell'italiana AVS a definire un nuovo, palatabile impianto economico e sociale.

Ovviamente le teorie keynesiane dovranno essere ripercorse e attentamente valutate e forse persino le mai sopite tentazioni tecnocratiche espresse dal Platone della Repubblica potranno trovare spazio in nuove formulazioni di filosofia morale e politica.

Quello che conta è il risultato e chi scrive si augura che il risultato contenga soprattutto una popolazione a cui è dato di vivere dignitosamente e serenamente la propria esistenza all'interno di un modello che provvede a rendere disponibili i servizi essenziali.

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