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ACCIAIO & GUERRA

  • Immagine del redattore: Gilberto
    Gilberto
  • 28 set
  • Tempo di lettura: 2 min

Occorre ripensare non solo il destino dell'ex ILVA ma quello della città e della provincia di Taranto. Tra progetti svendita o di nazionalizzazione fa capolino una revisione industriale coerente con Rearm Europe.


Le Aste vanno semideserte: c'è chi punta a rilevare qualche utilità dallo spezzatino dell'ex ILVA di Taranto, chi offre 2 € simbolici e chi, potentati finanziari statunitensi, intendono rilevare il tutto per rivenderlo al volo, insieme con il pacchetto clienti, marginalizzando profitti.

La questione dell'acciaio italiano, della ex più grande acciaieria italiana è agli atti finali.

Causa prima del disastro la questione ambientale: produrre acciaio necessita di enormi quantità di energia che nel passato era prodotta da carbone, ma il carbone inquina (moltissimo) e l'Italia non dispone di altre fonti di energia e con la crisi nei rapporti con la Russia anche il metano a basso prezzo è evaporato. Produrre è diventato troppo oneroso, l'acciaio italiano non è più competitivo e mentre tra pochi giorni in Puglia si terranno le elezioni regionali non si individua all'orizzonte uno straccio di progetto di rilancio né per l'acciaieria in sé né, soprattutto, per la città e la provincia di Taranto, che vanno letteralmente reinventate sotto il profilo economico.

Sul piatto qualcuno ha messo l'idea di nazionalizzare l'impianto, idea che credo sia contraria ai regolamenti comunitari ma che avrebbe un senso considerando il fatto che le Casse Integrazioni sono a carico della finanza pubblica che forse, nazionalizzando, a fianco dei costi potrebbe anche registrare dei ricavi. Forse.

Al destino dell'acciaieria e dell'immenso indotto sono legati i destini di decine di migliaia di famiglie e quello di un vasto territorio, non solo urbano, che deve ripensare la propria economia e il proprio futuro. Allora, forse, si potrebbe immaginare una trasformazione dell'impianto a favore di quel modello comunitario che prende il nome di Rearm Europe, destinando la produzione di metalli ai progetti di armamento pesante il che, data l'aria che tira - non proprio pacifista - , potrebbe risultare un'ipotesi economicamente soddisfacente.

Un'ipotesi però che esporrebbe l'area a diventare, in caso di estensione dei conflitti, bersaglio bellico primario, sia in quanto area produttiva di armamento sia per il suo ruolo storico di porto preferenziale per la Marina Militare.

L'opzione farebbe gola a molti, anche nella considerazione dei non pochi fondi resi disponibili dall'UE in materia di riarmo.

Quello che credo sia certo, però, è che nel caso in cui si dovesse arrivare a questa soluzione la produzione sarebbe nuovamente alimentata a carbone (con buona pace dell'ambiente, degli ambientalisti e dei magistrati che negli anni hanno decretato il fermo produttivo per questioni ambientali).

Come reagirebbero le piazze che attualmente sfilano ProPal a fronte di una svolta di questo genere? Si annunciano periodi molto complessi.

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